Artribune.com - Maggio 2017

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Biennale di Venezia. L’editoriale di Roberto Ago



By Roberto Ago - 21 maggio 2017







Nuovo commento alla Biennale di Christine Macel. Roberto Ago propone una lettura del Padiglione Italia fuori dal coro. Individuandone le mancanze, mettendo in discussione l’opera di Roberto Cuoghi e premiando le riflessioni acquatiche di Giorgio Andreotta Calò.


La mostra alla Biennale di Venezia 2017 a cura di Christine Macel, dal goffo titolo Viva Arte Viva, a parte qualche guizzo isolato, risulta nell’insieme statica, decorativa e maldestra. Poiché è già stata sufficientemente radiografata da numerosi commentatori, non sempre lusinghieri, non mi pare ci sia altro da aggiungere.
Invece, l’evento – e sottolineo il carattere “epifanico” che inevitabilmente ha assunto – di un Padiglione Italia finalmente dignitoso ha disinnescato alla nascita ogni giudizio distaccato, ponderato e un minimo articolato. In una parola: tecnico. Vorrei evitare così di unirmi al peana entusiastico che lo ha accolto e al quale aderisco solo in parte – certamente elogiando l’operato di Cecilia Alemani, e anzi le si consegni fin d’ora la candidatura honoris causa a Capitano della prossima Biennale –, per procedere a un’analisi fuori dai cori.
Tutto appare chiaro e trasparente, a chi solo abbia gli occhi sufficientemente limpidi per vedere una verità francescana: il curatore italiano che si formi all’estero, e forse solo quello che si formi all’estero, ancora meglio se nel consesso della curatela italiana d’esportazione, tra le migliori al mondo, è garanzia quasi automatica di professionalità. Date la prossima edizione se non alla Alemani, ad Andrea Bellini o a Vincenzo De Bellis, e state sicuri del risultato. Beninteso, chiunque mastichi qualità – e dignità – fuori dall’Italia è papabile, semplicemente perché non farebbe troppa fatica a confezionare un Padiglione tricolore tarato sugli standard internazionali. Qui stanno il pregio e il limite del Padiglione di Alemani, naturalmente. Se l’adesione al canone è stata garantita, ciò che difetta è la sperimentazione non allineata o anche semplicemente un suo avatar. Va detto, infatti, che se il “lapsus” della novità informa la temperie artistica globale di inizio millennio, dalla quale sembra impossibile sfuggire, è anche vero che i manierismi sono molteplici e che dunque confezionare una mostra meno educata e anacronistica sarebbe stato possibile.


57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Italia, Adelita Husni-Bey, The Reading La Seduta, photo credit altrospaziophotography.com


UN PADIGLIONE RITROVATO


L’eccezionalità di un Padiglione ritrovato ha compromesso un giudizio analitico ponderato anche sulle prove dei tre artisti selezionati: Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey. Poiché si può considerare come meramente illustrativa del tema della mostra (Il mondo magico) la pretestuosa – oltre che di per sé scolastica – videoinstallazione di Husni-Bey (The Reading / La Seduta), utile più che altro a controbilanciare la massiccia presenza scultorea dei suoi compagni di avventura – se quello era l’intento, perché non assoldare il realismo straniante di uno Yuri Ancarani? –, mi concentrerò sul versante plastico dell’esposizione.


I LIMITI DI CUOGHI


La generosa installazione di Efesto-Cuoghi, come giustamente l’ha ribattezzato Gian Maria Tosatti, è certamente di forte impatto, specie per le pupille più impressionabili. Il tema di una Imitatio Christi affidata all’argilla perenne dell’arte, datata a un’agape pre-crocifisso e declinata in chiave antropo-poietica, è sicuramente indovinato, un po’ meno la scelta di esordire in una mostra-mondo come la Biennale. Stavolta, occorre ammettere, oltre al fabbro sacro del National Geographic assistiamo a un Cuoghi di spessore concettuale; la sensazione limitrofa, tuttavia, è che nonostante l’originale e direi addirittura geniale iconografia di una fucina cristo-adamitica e prometeica, un’estetica da set televisivo ci metta lo zampino, e allora sarebbe stato più audace e perfino obbligato tematizzarla in quella direzione con cinica consapevolezza – à la Simon Fujiwara, per intenderci. Invece, la mera finzione del circo veneziano dell’arte ha reso il tutto fatalmente posticcio.
Venendo ai singoli costituenti, la serra di plastica semi-trasparente, qui adibita a scenografico tempio dell’antropo-tecnica, sa troppo di deja-vù o troppo poco di plagio citazionista, tipo appropriazione indebita di un Carsten Höller. Non meno inflazionate appaiono le forme del contenuto: da Mark Manders a Pawel Althamer, per limitarci alle due eco più lampanti, occorre rilevare come nessuna identità stilistica alternativa segni questi poveri cristi. Siccome Cuoghi è scultore, e non un calcolato artista concettuale come appunto Fujiwara, il quale avrebbe potuto rovesciare a proprio vantaggio una mimesi anonima e impersonale, la cosa fa problema.
Ora Cuoghi, nonostante possa suggerirsi il contrario, nell’insieme del suo percorso artistico è stilisticamente ben riconoscibile. Semmai, è lo spessore concettuale a fargli difetto. Così una volta appare esteticamente convincente, ma parco di idee (vedi l’ultima grande personale al CAC di Ginevra), un’altra concettualmente ispirato, ma senza padroneggiare la novità e per giunta trascurato nell’esecuzione (qui a Venezia), mai che si assista a uno spettacolo combinato di tutte le prerogative. Non resta che attendere fiduciosi un ulteriore salto di qualità che sancisca l’avvenuta integrazione in quello che indubbiamente è un formidabile artigiano.


57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Italia, Giorgio Andreotta Calò, Senza titolo (La fine del mondo), photo credit Andrea Ferro


ANDREOTTA CALÒ E LA FEDELTÀ ALL’ACQUA


Il più sofisticato Andreotta Calò, quando vuole, pure è ben riconoscibile, e questa è condizione necessaria per la buona arte, il suo a priori addirittura. Quella del Padiglione Italia è una di queste volte sia nel senso della necessità, sia in quello della sufficienza (e ben oltre). La sua installazione allo specchio è magistrale, e ci consegna nientemeno che la chiglia affondata della Nave celeste. Che crolli il tetto della cattedrale o emerga il fondo dell’Ade, non fa differenza, l’abisso sta tutto in tale indecidibilità. Senza Titolo (La fine del mondo): un piano di costruzione per un piano di decostruzione, un interstizio minimo per un massimo di comprensione, un occhio rapace per i nostri sguardi da gallina e una clessidra immobile per il tempo che fugge. Tutto questo e altro ancora ci consegna questa polisemica apparizione.
Anche nel caso di Talete-Calò, c’è un però. L’artista ci riporta, non a caso nella sua Venezia, non alla polvere del sepolcro ma all’elemento primigenio, all’arché. La sua semi-fedeltà alle acque è prossima a quella, al contrario inconcussa, di Penone nei confronti degli arbusti. Poiché squadra che vince non si cambia, il meno che si possa suggerire a Calò è di tenere sufficientemente a freno le tentazioni “in secco”, cui pure a volte indulge, restando fedele alle origini. E se proprio deve, si limiti alle tentazioni empedoclee, lasciando al palo lo stile internazionale della doxa.

– Roberto Ago