I edizione in Flash Art # 287 - Ottobre 2010



II edizione aggiornata, anno 2017


I valori del paradosso # 1



DUCHAMP È SENZA TEMPO



Roberto Ago







SUL N°282 (aprile 2010) di Flash Art è apparso un articolo di Pierluigi Sacco, intitolato “I paradossi del valore - Anche Duchamp ha fatto il suo tempo?”, relativo a questioni “duchampiane” già sollevate da Franco Vaccari in due suoi scritti del 1978 e del 2008 (entrambi ripubblicati di recente nel suo libro Duchamp messo a nudo).
Parafrasando Vaccari, Sacco corrobora una prima tesi: (1) in sintesi, il ready made costituirebbe una delle falsificazioni più efficaci e sintetiche della teoria marxiana del valore, per la quale quest’ultimo è direttamente proporzionale alla quantità di lavoro incorporato nel bene-merce, perché il lavoro e l’abilità esecutiva necessari alla sua realizzazione risulterebbero occultati in favore di un puro giogo dei segni che viene legittimato senza possibilità di un reale riscontro. (2) Una seconda tesi vorrebbe, per la stessa ragione, il ready made in quanto modello ante litteram dell’attuale “finanza creativa”, mentre (3) una terza, comune congettura vede Vaccari istituire un parallelo tra il recente crack finanziario e una pratica duchampiana sul viale del tramonto, e similmente Sacco annunciare un auspicato giro di boa “(post)beuysiano”, capace di sbarazzarsi del retaggio anal-ritentivo proprio della reliquia-oggetto duchampiana, a suo dire causa efficiente dell’attuale autoreferenzialità e sterilità del mondo dell’arte.
Ora, occorre dire che la teoria marxiana del valore è stata ampliata e aggiornata a partire dal principio che, con il progressivo affermarsi dell’era industriale e poi tecnologica, non è più tanto la quantità di lavoro incorporata in un bene-merce ad assicurane il valore ma, e assai di più, la sua qualità performativa e soprattutto lo status simbolico di cui è portatore. A partire da questa doverosa messa a fuoco, affinché il portato di Duchamp e della sua germinale invenzione ritrovino una corretta interpretazione, è qui proposta la seguente riformulazione: non Duchamp che falsifica una teoria del valore già datata alla nascita, meno che mai Duchamp che anticipa l’attuale “finanza creativa”. Semmai, Duchamp che può formalizzare il modello simbolico di un’economia capitalistica relativamente sana proprio perché il suo ready made, lungi dall’incorporare un lavoro nullo, un’abilità realizzativa inesistente e un portato “alchemico” e “misteriosofico” (nelle svalutanti parole di Sacco) fondamentale, se letto nell’ottica corretta che vedremo, è al contrario di ciascun elemento massimamente intriso. Analizzeremo, invece, la questione del terzo punto in seconda battuta.
Innanzitutto, appare del tutto illegittimo, rispetto alla realizzazione di qualsivoglia opera d’arte, contrapporre il concetto di talento artigianale a quello di mera esecuzione, perché le due cose sono più sfumate di quanto normalmente si pensi, basti pensare al dripping di Jackson Pollock (che è un ready made “operativo”) per rendersene conto. E poi, come stabilire che la ricerca di un objet trouvé sia meno dispendiosa rispetto, per esempio, alla facile tela di un Mondrian? Infine, il lavoro manuale dell’artigiano cessa forse di esistere solo perché “assunto”, capitalizzato da Duchamp? Se così fosse, un oggetto la cui realizzazione venisse appaltata cesserebbe di avere valore artigianale quando in seguito solo firmato dall’azienda cui fa riferimento, e così non è mai. Ma anche a voler seguire la tesi di un ready made “scansafatiche” differente dalle altre opere d’arte, ci si accorge che il discorso non sta in piedi: esso non sarebbe il solo campione di pigrizia. Dove li mettiamo gli oli radicali di Malevic, i tagli fulminei di Fontana, i video essenziali di Nauman? Il solo porre sul tavolo questi tre esempi fa vacillare i presupposti stessi del discorso, non più sul piano dell’argomentazione, bensì per l’impossibilità di individuare con precisione l’oggetto di cui si vorrebbe discutere.
Duchamp scelse con imperscrutabile calcolo i suoi oggetti preconfezionati, ispirandosi probabilmente proprio alle fonti iconografiche acutamente individuate da Vaccari. Il quale, però, non rileva come gli objet trouvé più famosi siano tutt’altro che anonimi, visto che anelano, su un piano diverso, a quella stessa forza primigenia che andava orientando un Picasso verso l’arte negra, e che ha contrassegnato in genere il furore iconoclasta delle avanguardie storiche. Il loro portato simbolico “occulto”, così bene individuato dalla psicanalisi**, riconsegnava agli indispettiti spettatori del tempo, mascherata e traslata sulla trivialità di scarni oggetti quotidiani, non solo la sessualità in termini vagamente perversi e feticistici, quanto un registro onirico e simbolico rispetto al quale il mondo borghese di allora si rappresentava una realtà ancora tendenzialmente sublimata e idealizzata. Il Sessantotto era ancora ben lungi dal compiersi, evidentemente. Attraverso Duchamp, irruppe il rimosso delle belle arti, egli operò, certo in modo preterintenzionale, sotto il segno di una sostanziale integrazione verso la completezza, non a caso negli stessi anni in cui il padre della psicoanalisi e il grande unificatore delle leggi fisiche spazzavano via gli ultimi residui di idealismo.
Il “valore” scoperto da Duchamp in oggetti comuni e condivisi, da un lato attraverso una loro decontestualizzazione dalle valenze onirico-allucinatorie, dall’altro attraverso le proiezioni inconsce dell’artista/pubblico, mentre legittimava “di nascosto” tutti quegli elementi sconvenienti della vita che il Novecento avrebbe progressivamente assimilato, sanciva il primato dell’idea rispetto al fare artigianale. Si inaugurava l’arte “concettuale”, e si innestava, nel terreno di una modernità all’apice del suo splendore e insieme prossima alla marcescenza, quel seme che qualche decennio dopo avrebbe dato vita alla selva postmoderna, quando l’antica metallurgia sarà soppiantata dalla nascente “semiurgia” (nella felice definizione di Jean Baudrillard).
Dunque negli objet trouvé di Duchamp la quantità (e qualità) di lavoro sia materiale che intellettuale non è affatto nulla. E’ nulla, invece, una loro paternità univoca. È il portato simbolico dell’incerta paternità dell’objet trouvè – abissale, in questo senso, la sua attinenza lessicale e di fatto con la figura mitologica del Trovatello Divino – a rivestire un’importanza centrale. Con l’avvento di un’opera come Fountain, la discontinuità realizzativa riportò sulla Terra l’aulico concetto di genio. Come la figura di Cristo, così il ready made può vantare un duplice padre: quello “terreno”, rappresentato dall’artigiano che ha materialmente fabbricato l’oggetto, e quello “divino”, incarnato dal demiurgo Duchamp. L’artigiano è come il falegname Giuseppe, il quale rappresenta il rovescio simbolico della controparte divina, il suo aspetto per così dire tangibile. È questione di proporzioni, e anche di logica: se /l’artigiano/ sta a /l’orinatoio/ come /Duchamp/ sta a /Fountain/, e se /l’artigiano/ sta a /Fountain/ come / Giuseppe/ sta a /Cristo/, allora /l’artigiano/ sta a /Giuseppe/ come /Duchamp/ sta a /Dio/.
Se Cristo è Corpo di un Dio altrimenti intangibile, Fountain, una Ferrari e ogni altro bene-merce dell’economia capitalistica sono l’incarnazione vivente di un Marchio che è sempre a un tempo personale e impersonale, un deus-ex-machina che resta per lo più inaccessibile, ma che può incarnarsi attraverso i suoi figli semi-divini, quei simulacri che valgono in nome del Padre. Tutta l’economia capitalistica, di cui l’arte è solo un sottoinsieme, si regge su questo differimento del lavoro e della sua paternità, su beni trasfigurati e su consumatori in adorazione di feticci dal padre putativo. Il mitologema cristiano – ma non solo quello cristiano evidentemente – conia il differenziale tra il  valore oggettivo di un bene-merce (Gesù) e il surplus di valore determinato dal suo valore di mercato (Cristo), suggerendo anche l’annoso problema della sua paternità e del giusto compenso per l’umile artigiano (Giuseppe), che pure l’ha allevato. Una pretesa, quest’ultima, legittima e vecchia quanto il mondo, che culminerà nella lotta di classe la quale rivendicava proprio il giusto risarcimento per l’esproprio della paternità/proprietà dei beni-merce da parte del capitale (Dio).
Se, “kantianamente”, il cosiddetto “meccanismo di scissione e idealizzazione”** individuato dalla psicanalisi è il motore fondamentale che soggiace alla nascita nevrotica del valore/dis-valore, tanto nelle nostre credenze religiose e ideologiche***, quanto nei nostri abituali metri di giudizio, allora ne segue che il ready made duchampiano, essendo fondato primariamente su tale meccanismo, non può aver anticipato affatto un modello di quella “finanza creativa” che ci ha condotti all’attuale crisi economica, perché essa, come molti altri fenomeni sociali su larga scala, meglio presuppone lo iato totale della psicosi, la distanza incolmabile in questo caso tra una sfera divina rappresentata da un valore finanziario assoluto e una sfera terrena rappresentata da un’economia reale che è stata interamente rimossa. Venuta meno quella dialettica tra realtà e idealità che è alla base di una psiche più o meno sana come di una economia capitalistica in relativo equilibrio, i cosiddetti “derivati” hanno tagliato i ponti (leggi Cristo) con l’umile concretezza di Giuseppe e dei suoi fondi d’investimento intagliati nel legno. Il dio Denaro rifletteva solo se stesso. Impossibile per i “fedeli” investitori, a quel punto, scorgere anche solo un barlume di realtà. Almeno finché il rimosso, come gli è usuale, non è riemerso con forza sub speciae di crack finanziario. Giustamente assunto da Vaccari e Sacco come causa fondamentale di una catastrofe finanziaria annunciata, l’impalpabile “giogo dei segni” non può essere attribuito al ready made, perché se è vero che, in virtù di quel giogo, è oggetto altamente magico, esso è anche “real thing”, e dunque non può rappresentare il modello bifido di un’iperbole finanziaria con destinazione Paradiso/Inferno. Semmai, ne è il simbolico antidoto. Al contrario dei titoli spazzatura, smaterializzati e inesistenti, o dei mutui a perdere americani, un’opera come Fountain, ovvero l’oggetto più esecrabile che si possa immaginare in quanto opera d’arte, esiste eccome, e dopo quasi un secolo è ancora lì, adorato dai fedeli di mezzo mondo. Perché?
Evocando una perturbante confusione tra ano, vagina e cavità uterina all’interno del corpo della (Ma)donna, nonché tra eiaculazione e minzione di un ipotetico ente maschile che si accinga a fecondarla/urinarla, ha il compito prestigioso di rammentare allo spettatore i suoi veri “natali”, che sono animali e sovente anche un po’ perversi, non divini. Duchamp non poté che accogliere la recente morte di Dio come un dato ineluttabile della nuova era, ma mantenne la struttura tanto del mito quanto del rituale, infondendo nella Materia inerte di un cesso lo Spirito immortale dell’arte: Ecce Homo.


Note:
* Per un corretto inquadramento del ready made duchampiano si rimanda a Franco Fornari, Coinema e Icona, Il Saggiatore, Milano, 1979. Fornari analizza in profondità soprattutto lo scolabottiglie (Egouttoir) e l’orinatoio (Fountain). A proposito, invece, della celebre ruota di bicicletta innestata nello sgabello (Roue de Bicyclette), appare del tutto ragionevole, alla luce della sua ermeneutica freudiana, evocare un rapporto sessuale di tipo anale. I tre ready made duchampiani più celebri rinviano dunque a quella sfera sessuale un po’ perversa che è il loro contenuto più genuino, anche se certamente non l’unico.
** Il meccanismo detto di “scissione e idealizzazione” è uno dei capisaldi della psicoanalisi post-freudiana, sviluppatosi in una letteratura vasta quanto la sua storia. Qui basti dire in proposito quanto riportato nella nota a seguire.
*** Nel suo Trattato di semiotica generale (1975), Umberto Eco formalizza un modello semiotico esplicativo del fenomeno ideologico del tutto simile al modello psicoanalitico della “scissione e idealizzazione”. In entrambi i casi, l’accento è posto prima sull’occultamento di quella porzione di verità concernente un campo semantico contraddittorio che, per qualche motivo, è ritenuta “scomoda” ora da un individuo, ora da una comunità, ora da un’intera nazione. Quindi sull’idealizzazione della restante porzione di verità operata in senso contrario a quello della rimozione, e che da questa necessariamente scaturisce. Infine, sull’assunzione che la nuova verità, ideologica perché parziale, sia la verità tout court inerente al campo semantico preso nella sua interezza.




In copertina: Roberto Ago, Senza Titolo (Coinema e Icona) #1, 2010