Artribune.com - Dicembre 2015

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La mostra Ennesima? L’ennesima collezione di anacronismi



La mostra – anzi: le sette mostre – curata da Vincenzo De Bellis alla Triennale di Milano sta sollevando un polverone non da poco. Finalmente. Significa che il dibattito non è morto come molti sostengono (e auspicano). E che ci sono ancora mostre, curatori, scelte che fanno discutere un sistema, quello dell’arte, che quando vuole sa confrontarsi a livelli dignitosi. Apriamo così anche su Artribune un dialogo a partire dalle sale milanesi. Il primo a prendere la parola è Roberto Ago.



Ennesima, veduta della mostra presso La Triennale di Milano, 2015


L’EREDITÀ E IL VALORE

Qualche anno prima di spirare, alla richiesta di indicarci quali artisti secondo lui avessero saputo ereditare ovvero tradire le italiche radici dell’arte, Luciano Fabro lasciò l’aula sbigottita indicando in Maurizio Cattelan l’unico erede degno di essere menzionato. La cosa in realtà non deve stupire, se anche Luciano stigmatizzava volentieri la “pignoleria” di Optical e Minimal Art o il “retinismo” di Gerard Richter, era spirito perfettamente in grado di discernere il proprio (sofisticato) gusto personale dal valore intrinseco dell’arte.
Alla fine, il valore è il grande mistero“, sentenzierà a qualche anno di distanza e in sorprendente sovrapposizione con Luca Rossi l’estetologo Andrea Pinotti, in conversazione con Massimiliano Gioni sulle pagine di uno dei sette cataloghi della mostra Ennesima. Una mostra di sette mostre sull’arte italiana. Che è congegno espositivo articolato e ambizioso, ideale distaccamento di un Palazzo Enciclopedico (e Grande Madre) che ha fatto della mise en abyme il suo primo manifesto teorico a uso e consumo di curatori affatto inclini al proselitismo. Vincenzo De Bellis dimostra in colpo solo ma plurale di aver capito la lezione, al punto che il suo composto display googleano sfiora il presagio di una possibile, imminente accademia.



Ennesima, veduta della mostra presso La Triennale di Milano, 2015


CAPITOLI I, II

Ad accogliere lo spettatore di Ennesima sono i due grandi pigmalioni dell’arte nostrana di stanza a Brera. Poco dopo le intelligenti lampadine parafulmini di Alberto Garutti, Luciano Fabro rivisita in chiave ermeneutica la grande tradizione avanguardista. La sua piazza antropica è sapiente e ironica come sempre, vertice genealogico di una piramide artistica al contrario problematica. Ciò che innanzitutto colpisce, di questo preambolo esemplare nel suo proposito di mappatura iconografica transgenerazionale, è la sostanziale immobilità di una parte sostanziosa della scena artistica più recente, selezionata da De Bellis in continuità con i suoi predecessori e sodali.
Tanto che si fatica a distinguere l’attardato logos minimale di Lara Favaretto dalle aurorali suggestioni plastiche dell’Arte Povera, il sapiente film pittorico di Pietro Roccasalva da quello poco distante di Mario Merz, il fiore ampolloso di Mario Airò da analoghe piroette di Gilberto Zorio, il goffo primitivismo di Roberto Cuoghi dalla naïveté ben più risolta di Luigi Ontani, il vetro di Diego Perrone da anonime plasticità conturbanti degli Anni Settanta.
Filologicamente imperdonabile, in tale contesto, l’aver convocato Francesco Gennari ma non Gianni Caravaggio, Lara Favaretto ma non Flavio Favelli, per giunta scalzati da novizi improvvisati come Andrea Romano, i cui calchi in neon di cartoni animati appaiono concettualmente risibili, oltre che anonimi.
Possibile che il dopo-Cattelan (e Prince, Fischer, Wolfson…) debba essere tanto reazionario e anacronistico? Si dirà, anche sulle pagine programmatiche del catalogo, che l’idea era proprio quella di cogliere una linea di continuità all’interno di una tradizione iconografica mai sopita e ben riconoscibile. Ebbene, mai intento è stato meglio perseguito ma anche più frainteso, nella sua tragica essenza.



Ennesima – veduta della mostra presso La Triennale di Milano, 2015


CAPITOLO III

A seguire questa seconda esposizione epigonale, ancorché magistralmente allestita, è una ricognizione intorno alle pratiche verbo-visive made in Italy, eredità concettuale degli Anni di piombo squisitamente incastonata in un format burocratico. Qui poco da dire, se non che alla mestizia formale delle opere si somma quella della loro tassonomia. L’interesse è in gran parte filologico e storiografico.


CAPITOLO IV

È il turno di una mostra monografica dedicata ad Alessandro Pessoli, bravo proseguitore della temperie transavanguardista in chiave vintage, e in sintonia con analoghi primitivismi d’oltreoceano. Professionale ma datato.


CAPITOLO V

La quinta ricognizione è interamente dedicata alla performance, o meglio a un recinto zoologico che la ingabbia in tante celle d’isolamento. L’effetto è suggestivo e straniante, l’invenzione più felice della mostra, un gesto artistico-curatoriale più incisivo di quelli compendiati.
Il senso di claustrofobia prosegue sul perimetro esterno, dove Massimo De Carlo appare “scocciato” senza più la forza e sorpresa dell’azione originale, per un fossile che fa rimpiangere e comprendere la scelta purista di Tino Sehgal. Analoghe tassidermie fotografiche immortalano una delle prime, belle e fresche performance di Vanessa Beecroft, scolastici e pretenziosi invece gli interventi dei più giovani, a partire da Patrizio Di Massimo, passando per Linda Fregni Nagler, finendo con Luigi Presicce.


CAPITOLO VI

La penultima stazione del percorso espositivo è un capolavoro grafico e concettuale degno di un racconto alla Borges: la cronistoria in pompa magna del cosiddetto Spazio di via Lazzaro Palazzi. Ovvero di un’esperienza artistica encomiabile negli intenti ma assai marginale nei risultati, venduta come fosse la quintessenza del valore da preservare a futura memoria dei posteri.
Come se non bastasse, un’installazione ambientale ambisce a illustrare l’audacia sperimentale che indubbiamente animava i componenti del gruppo, se non fosse che il risultato avrebbe consigliato di archiviare l’episodio come trascurabile. Due dita di polvere non necessariamente fanno un monumento.



Ennesima – veduta della mostra presso La Triennale di Milano, 2015


CAPITOLO VII

L’esposizione conclusiva di Ennesima dedicata alle ultime tendenze (si fa per dire) ha l’ambizione di mappare sia pure parzialmente l’ultimo stadio dell’arte italiana. Senonché immancabili atmosfere minimal, vintage e délabré assicurano un perfetto allineamento con il mainstream internazionale, a onor del vero anch’esso progressivamente nostalgico e indifferenziato. Tutte le opere non fanno che contraddire la presunta originalità dei singoli proclamata con irenica spudoratezza nel comunicato stampa, denunciando una pletora di ritorni all’ordine francamente stupefacente.
Il fatto è che, in Italia, non solo il ritardo su pratiche logore non è avvertito (vale anche per l’estero), ma nemmeno è bilanciato da identità idiolettali. Se Pessoli almeno è inconfondibile, Alek O., Giorgio Androtta Calò, Francesco Arena, Danilo Correale, Luca Monterastelli, Alessandro Agudio, Lupo Borgonuovo, Santo Tolone, Nicola Martini, Andrea Romano non sembrano avvertire la totale acribia che circonda le loro impersonali produzioni.
Che fa la nostra curatela, chiude un occhio per disperazione o pensa davvero che questi siano artisti in grado di ereditare il testimone dell’arte tricolore? Ci siamo già passati con una lista interminabile di promesse mancate, non è bastata l’esperienza fallimentare di Espresso o quella nemmeno più dissimulata di Exit? Che dire e pensare? Che fare?


IL TRADIMENTO/NON-TRADIMENTO DEI PADRI

Se la misura è colma, il colmo è misurabile. Dovremmo essere grati a questa mostra qualora consentisse al Paese di aprire gli occhi e voltare pagina, cominciando con l’accreditare più di un commentatore a sentirsi non solo autorizzato, ma a questo punto obbligato ad assumere con lucidità e rigore un punto di vista alternativo, che sfidi quello dominante nella volontà di testimoniare lo spirito dei Padri anche della critica. Occorre sostenere senza mezzi termini che Ennesima è l’espressione di tante eredità senza tradimento, una teoria di manierismi finalmente lampanti, a patto di volerli vedere. Occorre anche riscattare l’onore di tutti i protagonisti silenziosi della nostra storia dell’arte a fronte di operatori che solo presumono di agire nel solco di una continuità mai scontata, quando stanno deragliando da un pezzo. Che un giorno si possa dire che almeno qualcuno, rispetto a tale quadro generale, non era d’accordo: quella non è l’espressione aggiornata dell’arte italiana e, beninteso, un’alternativa ancora non si vede.
A parte i soliti Cattelan, Beecroft, Stingel e Vezzoli, impegnati sul fronte estero a salvarci la faccia, e i più recenti Roccasalva, Gennari e in misura discontinua Gabellone, i quali assumendo programmaticamente la tradizione, almeno possono eccederla, la gran parte degli ospiti anche stagionati di Ennesima non è degna di accompagnarsi ai nomi illustri pure presenti. C’è una falla nella catena, la trasmissione si è come inceppata, in particolare nelle filiazioni di Fabro e Garutti, maestri più freschi dei loro numerosi allievi.



Ennesima – veduta della mostra presso La Triennale di Milano, 2015