I edizione in “Contropelo”, Flash Art # 294 - Giugno 2011


II edizione aggiornata, anno 2017



Labirinti



Roberto Ago






C’è un filo d’Arianna che orienta, sviluppa e collega l’opera singolare di tre artisti non a caso italiani, riconducibili a tre generazioni diverse che hanno rinvenuto nella figura del Labirinto – rara nelle arti visive quanto di casa in letteratura – il loro passaggio del testimone. Giorgio De Chirico, Giulio Paolini e Pietro Roccasalva, a turno novelli Dante, si sono inoltrati nella selva oscura senza più uscirne, anzi eleggendola a propria dimora d’elezione.
Il novecentesco labirinto della crisi di Giorgio De Chirico è desumibile, per induzione, da quella teoria di “scorci” che sono le sue celeberrime tele, finestre su piazze d’Italia, vicoli ciechi e gomiti che, ignorando il disegno planimetrico, ce ne consegnano molte vedute prospettiche, accomunate dal modus teatrale dell’affaccio. A differenza di Dante, che fece della Commedia un trampolino di lancio per le sue ambizioni di architetto, egli sa che la pars pro toto, rinunciando alla grandezza della visione d’insieme, guadagna in ambiguità e mistero, come quando inseguiamo la fuga irregolare di un viottolo per nulla impensieriti dalla topografia del luogo.
Per Giulio Paolini, al contrario, più importante delle singole perle è il filo che le tiene insieme. Siamo nell’epoca della piena strutturalista che inonda ogni campo e disciplina, nella vertigine di una procedura razionale che sfida gli abissi della semiosi illimitata. E il modello operativo è dichiaratamente quello labirintico, rispetto al quale il singolo momento è per lo più il riflesso di una visione d’insieme originaria, come il frattale che si auto-replica all'infinito. Non che i vari episodi non abbiano la loro pregnanza, solo che sono tappe di un percorso complessivo più rilevante e decisivo.
Pietro Roccasalva, in un certo senso, costituisce una sintesi dialettica dei suoi illustri predecessori: dovendo rinnegare il padre almeno in parte, recupera qualcosa del nonno. La struttura del suo labirinto riveste pari importanza rispetto agli snodi che lo compongono. Non più la discreta melanconia di De Chirico, né il continuum maniacale di Paolini, ma un gioco delle scatole cinesi in perfetto equilibrio tra sensualità e intellettualismo, rende meglio conto del suo labirintico “cantiere”.
Fin qui, per sommi capi, le differenze strutturali che caratterizzano i dedali edificati dai tre artisti. Ma c’è, invece, un possibile nesso che li accomuni e che ci dica qualcosa d'altro? A differenza dei labirinti iniziatici e letterari di Teseo, Odisseo, Enea, Dante, Faust, Alice, Bloom, Zeno, K., quelli “a tempo indeterminato” dei nostri tre paladini delle arti visive non solo non contemplano l’uscita (prerogativa, questa, anche della letteratura d’avanguardia), ma nemmeno un candidato allo smarrimento.  Qualcosa di affatto diverso, dunque, rispetto a quanto narrato a partire dai grandi componimenti dell’antichità, passando per le favole e il romanzo moderno fino a giungere al cinema e a film emblematici, in fatto di labirinti, come Shining di Kubrick e Inland Empire di Lynch. In quest’ultimo la giovane protagonista, novella Psiche prigioniera di un Ade cinematografico, guadagna la salvezza solo dopo aver patito interminabili scissioni, deliri e allucinazioni che confondono i piani diegetico ed extra-diegetico, peregrinando da un set all’altro in un labirinto di specchi memore della più spinta follia godardiana, e quando finalmente riesce a vedersi nello schermo, ne salta automaticamente fuori. Bella metafora di una mente che si trae in salvo perché capace di riflettere se stessa e il mondo senza più coincidere con esso, come invece accade, ad esempio, nella schizofrenia.
Ma, per molti versi, anche nelle arti visive. Perché queste ultime non necessitano di un telos ora salvifico, ora tragico, comunque di una “fuoriuscita”? Per il semplice fatto che essendo iscritte nel registro simbolico dell’immagine e non in quello del racconto, difficilmente possono contemplare una storia con una fine. Non a caso, i mondi creati dai nostri tre artisti appaiono potenzialmente infiniti, ma anche disabitati e inanimati, “ultraterreni”. Ogni pathos è convogliato nell’edificazione di un claustrum a opera di un demiurgo (l’artista) onnipotente quanto schivo, capace di rovesciare in habitat l’inospitale. Identificato nella figura mitologica di Dedalo, non ama convocare esseri umani e umane vicende al suo capezzale, ma al limite altri se-midei quali Teseo e il Minotauro, oppure Le Muse Inquietanti, Mimesi, L’Ascensorista e via dicendo. Tutte effigi dei padroni di casa sotto mentite spoglie, chiamate a decorare le loro labirintiche fortezze.
E allora, non la narrazione di un Io posto di fronte a un mondo che è “altro-da-sé”, bensì la rappresentazione di un Io narcisistico che è tutt’uno con un sincronico mondo degli opposti; non un lungo viaggio catartico, ma risoluzione del conflitto con una serie ininterrotta di colpi di magia, attraverso quelle epifanie che sono le opere d’arte; non, infine, un percorso da affrontare nel tempo, ma uno spazio-tempo da dispiegare in un colpo, caratterizzano l’approccio al labirinto da parte delle belle arti.
L’Io narrante (ed errante), al contrario, per quanto spersonalizzato e disintegrato nel tessuto del racconto, è umano non divino. Non conoscendo l’onnipotenza che soggiace allo sguardo atemporale e distaccato dell’artista visivo, non può che anelare a conservare l’integrità. Temendo più di ogni altra cosa proprio quell’“al-di-là” dove le ombre imperversano e gli opposti si confondono generando caos, necessita continuamente di tornare “in sé”, come nell’incubo che svanisce al risveglio. Come Ulisse che “deve” ritornare dagli Inferi o il torero trionfante dopo aver neutralizzato la bestia in quella coreografia labirintica che è la sua azione di contenimento. L’alternativa, naturalmente, è quella di perire, impazzire o semplicemente arrendersi a un fato avverso, cosa che accade sovente sia allo schizofrenico che al toreador, oltre che ai prptagonisti di teatro, letteratura e cinema.
  


Da sinistra: GIORGIO DE CHIRICO, Mistero e malinconia d’una strada, 1914. Olio su tela, 88 x 72 cm. Collezione Privata; GIULIO PAOLINI, Studio per Dopo Tutto (dettaglio), 2009. Matita e collage su carta; PIETRO ROCCASALVA, Jockey Full of Bourbon (dettaglio), 2008. Courtesy Zero..., Milano.