II edizione aggiornata, anno 2017
Graffiti e reportage
Roberto Ago
VORREI RIPORTARE l’attenzione
del lettore su due episodi di cronaca estranei tra loro e tuttavia per
molti versi accomunabili, occorsi l’uno di recente e l’altro tre anni
fa. Il primo concerne l’incresciosa
distruzione, da parte delle autorità cinesi, dello studio dell’artista
Ai Weiwei; il secondo riguarda
la stupefacente scoperta, nelle
profondità della giungla amazzonica, di una tribù di Indios mai
venuta in contatto con il resto del
mondo. Molti di noi ricorderanno
come una mattina, sfogliando i
nostri quotidiani d’informazione,
fummo sorpresi nel vedere degli
“uomini rossi” scoccare le loro
frecce contro lo stesso aeroplano
dal quale venivano immortalati.
Per nulla intimoriti, rispondevano
a una minaccia spaventosa come
avrebbero fatto con una fiera o
una tribù nemica. Forse dotati di
credenze religiose, avranno inteso
quell’oggetto volante come una
divinità roboante scesa dai cieli
per punirli, e tuttavia molto presto
eclissatasi in quello stesso nulla dal
quale all’improvviso era venuta.
Ora, è ipotesi per nulla peregrina il fatto che la tribù in questione, a seguito di un evento tanto traumatico, possa aver incominciato a decorare il proprio vasellame e gli altri suoi manufatti accogliendo tra le consuete decorazioni un nuovo motivo o ideogramma, quello dell’aeroplano, o meglio di quel numinoso “inia alato” (l’inia è un cetaceo d’acqua dolce) che noi interpretiamo come “utile mezzo di trasporto”. Se ciò fosse davvero accaduto, i risultati ottenuti non dovrebbero essere dissimili da quei casi di finto primitivismo che tutti ben conosciamo, e che vedono trasposti all’interno di contesti arcaici degli elementi tecnologici, come per esempio accade nei celebri cartoon dei Flintstones, ma ancora meglio sulle terrecotte neolitiche di Weiwei, dove il logo “Coca-Cola” sembra integrarsi alla perfezione con gli antichi reperti in quanto motivo ornamentale stridente e insieme verosimile.
In caso di rinvenimento di una serie di terrecotte decorate a idrovolanti, potrebbe risultare impossibile stabilire se trattasi di artefatti confezionati da un artista contemporaneo, oppure di prodotti autentici di artigianato indio. Nel primo caso costituirebbero un’impostura consapevole e premeditata sul piano della forma, mentre testimonierebbero un grosso abbaglio sul piano del contenuto qualora si rivelassero come vessilli apotropaici di un trauma collettivo. In entrambi i casi non sarebbe stata effigiata la verità, a riprova del fatto che i segni facilmente sono menzogneri. Se poi fosse vero — come in effetti è stato suggerito da alcuni commentatori — che l’incredibile scoperta di una tribù isolata da sempre è, in realtà, il frutto di una messa in scena ideata insieme agli Indios per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto alla minaccia del disboscamento, ebbene, ciò costituirebbe un’ulteriore evidenza circa l’inattendibilità universale tanto dei segni, quanto degli intendimenti.
A fronte di quel manipolo di impavidi indigeni potremmo dunque essere in presenza di una formidabile messa in scena. A noi interessa ora stabilire se anche in questo caso è possibile rintracciare delle analogie con Weiwei. Le autorità cinesi, infatti, hanno preso di mira un loro concittadino molto particolare, in quanto artista critico nei confronti del governo. Non solo, facendo “metalinguaggio”, potrebbe rappresentare una minaccia anche sul piano artistico. Se ad esempio denuncia i rischi di una occidentalizzazione coatta della Cina attraverso la celeberrima serie dei vasi “Coca-Cola”, il minimo è disinnescarlo distruggendogli lo studio. Nel caso degli Indios, invece, a far paura è stato il disboscamento intensivo, a cui una finzione prossima a quella dell’arte ha cercato di porre rimedio. In quanto potenzialmente eversivo, Weiwei è stato causa di distruzione, mentre appare come effetto di distruzione il diversivo escogitato al fine di ostacolare ruspe e motoseghe. In entrambi i casi — la falsa scoperta di una vera tribù e la vera distruzione di una fabbrica di finzioni — il risultato non cambia: a una reale azione distruttiva si oppone una rappresentazione creativa, una forma di resistenza armata solo dell’ingegno menzognero dei segni con la loro carica sovversiva e demistificante. Una dotta e consapevole guerriglia semiotica nel caso del colto Weiwei, un nondimeno geniale terrorismo mediatico nel caso degli Indios e degli intraprendenti sceneggiatori loro alleati.
Ecco un bel vademecum per attivisti pacifici, a prescindere dal fatto che le cose stiano davvero così. Perché fino a prova contraria la notizia della distruzione dello studio di Weiwei potrebbe anch’essa rivelarsi un falso, mentre la scoperta della tribù vergine potrebbe essere autentica e ogni afflato rivoluzionario andare a farsi benedire. In effetti, parrebbe che altre visite a quel remoto villaggio siano seguite al primo avvistamento, e che le autorità cinesi abbiano raso al suolo un intero quartiere di studi d’artista, tra cui anche quello di Weiwei, solo per favorire un nuovo piano edilizio, imposto magari con prepotenza e tuttavia non direttamente lesivo nei suoi confronti. Sorvegliato speciale, sembrerebbe che il nostro abbia cavalcato la notizia a suo vantaggio, inquinando un poco la verità dei fatti. O sono state le autorità a farlo?
Come si vede, né un ideogramma inequivocabile dell’aeroplano inciso su terracotta, né la certezza di eroi senza macchia scagliati contro i rispettivi Golia, si stagliano sullo sfondo di questo avvincente intreccio tra graffiti senza tempo e puntuali agenzie. Solo una strutturale anarchia dei segni, i quali, proprio come l’arte, tendono a confondere le rappresentazioni con i fatti. Ma, a differenza di un graffito, un reportage appare refrattario a ogni verifica e, dunque, inattendibile nella sua pretesa di verità.
Ora, è ipotesi per nulla peregrina il fatto che la tribù in questione, a seguito di un evento tanto traumatico, possa aver incominciato a decorare il proprio vasellame e gli altri suoi manufatti accogliendo tra le consuete decorazioni un nuovo motivo o ideogramma, quello dell’aeroplano, o meglio di quel numinoso “inia alato” (l’inia è un cetaceo d’acqua dolce) che noi interpretiamo come “utile mezzo di trasporto”. Se ciò fosse davvero accaduto, i risultati ottenuti non dovrebbero essere dissimili da quei casi di finto primitivismo che tutti ben conosciamo, e che vedono trasposti all’interno di contesti arcaici degli elementi tecnologici, come per esempio accade nei celebri cartoon dei Flintstones, ma ancora meglio sulle terrecotte neolitiche di Weiwei, dove il logo “Coca-Cola” sembra integrarsi alla perfezione con gli antichi reperti in quanto motivo ornamentale stridente e insieme verosimile.
In caso di rinvenimento di una serie di terrecotte decorate a idrovolanti, potrebbe risultare impossibile stabilire se trattasi di artefatti confezionati da un artista contemporaneo, oppure di prodotti autentici di artigianato indio. Nel primo caso costituirebbero un’impostura consapevole e premeditata sul piano della forma, mentre testimonierebbero un grosso abbaglio sul piano del contenuto qualora si rivelassero come vessilli apotropaici di un trauma collettivo. In entrambi i casi non sarebbe stata effigiata la verità, a riprova del fatto che i segni facilmente sono menzogneri. Se poi fosse vero — come in effetti è stato suggerito da alcuni commentatori — che l’incredibile scoperta di una tribù isolata da sempre è, in realtà, il frutto di una messa in scena ideata insieme agli Indios per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto alla minaccia del disboscamento, ebbene, ciò costituirebbe un’ulteriore evidenza circa l’inattendibilità universale tanto dei segni, quanto degli intendimenti.
A fronte di quel manipolo di impavidi indigeni potremmo dunque essere in presenza di una formidabile messa in scena. A noi interessa ora stabilire se anche in questo caso è possibile rintracciare delle analogie con Weiwei. Le autorità cinesi, infatti, hanno preso di mira un loro concittadino molto particolare, in quanto artista critico nei confronti del governo. Non solo, facendo “metalinguaggio”, potrebbe rappresentare una minaccia anche sul piano artistico. Se ad esempio denuncia i rischi di una occidentalizzazione coatta della Cina attraverso la celeberrima serie dei vasi “Coca-Cola”, il minimo è disinnescarlo distruggendogli lo studio. Nel caso degli Indios, invece, a far paura è stato il disboscamento intensivo, a cui una finzione prossima a quella dell’arte ha cercato di porre rimedio. In quanto potenzialmente eversivo, Weiwei è stato causa di distruzione, mentre appare come effetto di distruzione il diversivo escogitato al fine di ostacolare ruspe e motoseghe. In entrambi i casi — la falsa scoperta di una vera tribù e la vera distruzione di una fabbrica di finzioni — il risultato non cambia: a una reale azione distruttiva si oppone una rappresentazione creativa, una forma di resistenza armata solo dell’ingegno menzognero dei segni con la loro carica sovversiva e demistificante. Una dotta e consapevole guerriglia semiotica nel caso del colto Weiwei, un nondimeno geniale terrorismo mediatico nel caso degli Indios e degli intraprendenti sceneggiatori loro alleati.
Ecco un bel vademecum per attivisti pacifici, a prescindere dal fatto che le cose stiano davvero così. Perché fino a prova contraria la notizia della distruzione dello studio di Weiwei potrebbe anch’essa rivelarsi un falso, mentre la scoperta della tribù vergine potrebbe essere autentica e ogni afflato rivoluzionario andare a farsi benedire. In effetti, parrebbe che altre visite a quel remoto villaggio siano seguite al primo avvistamento, e che le autorità cinesi abbiano raso al suolo un intero quartiere di studi d’artista, tra cui anche quello di Weiwei, solo per favorire un nuovo piano edilizio, imposto magari con prepotenza e tuttavia non direttamente lesivo nei suoi confronti. Sorvegliato speciale, sembrerebbe che il nostro abbia cavalcato la notizia a suo vantaggio, inquinando un poco la verità dei fatti. O sono state le autorità a farlo?
Come si vede, né un ideogramma inequivocabile dell’aeroplano inciso su terracotta, né la certezza di eroi senza macchia scagliati contro i rispettivi Golia, si stagliano sullo sfondo di questo avvincente intreccio tra graffiti senza tempo e puntuali agenzie. Solo una strutturale anarchia dei segni, i quali, proprio come l’arte, tendono a confondere le rappresentazioni con i fatti. Ma, a differenza di un graffito, un reportage appare refrattario a ogni verifica e, dunque, inattendibile nella sua pretesa di verità.