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Dottore, che significa ?
By Roberto Ago
A partire dalle indagini pionieristiche di Sigmund Freud, la psicanalisi ci ha insegnato che l’Inconscio, per rappresentarsi un’angoscia di castrazione, tende ad utilizzare come sostituti simbolici del Fallo - e non, si badi, del “pene” - delle parti anatomiche mutilate o gravemente compromesse. In particolare nei sogni di pazienti, chiome fluenti recise o strappate, denti spezzati, mani mozzate, arti perduti e, naturalmente, peni amputati, si pongono come surrogati concreti di un qualche handicap che essendo psichico, non necessariamente coinvolge un malfunzionamento delle prestazioni sessuali. Più spesso, invece, un sogno di castrazione denota angosce legate a problemi di autostima se non d’identità, conflitti e traumi insoluti, infantilismo, disturbi del carattere, gravi problemi di adattamento e via dicendo. Questo perchè il Fallo è un importante simbolo psichico depositario dell’ integrità psichica del soggetto a prescindere dalla sua identità sessuale, e se contempla l’organo maschile quale suo primo signiticante, è solo per trascenderlo. Ora, è possibile rintracciare un “complesso di castrazione” anche in molte opere d’arte, che possono essere lette proprio come dei sogni, solo un po’ speciali perchè d’artista e dunque particolarmente eflicaci e rivelatori, ma soprattutto capaci di intercettare angosce massimamente “collettive”. Vediamone alcune.
Corna. Diego Perrone ci ha consegnato alcuni ritratti immortali di vecchi sullo sfondo di una inconfondibile provincia italiana. La città è assente, e i vegliardi portano in braccio dei vessilli di un’era rurale tramontata per sempre, eppure pervicacemente radicata tanto nel nostro immaginario, quanto appena fuori dalle nostre congestionate metropoli. Si tratta di imponenti corna di cervidi, di trofei che alludono a una sorta di tempo mitico. Ma che significano? Forse gli arzilli vecchietti stanno per tutti quei nonni un po’ ruspanti rimasti a vivere in provincia, e ai quali noi nipoti di città guardiamo con nostalgica e un po’ esotica curiosità. Essi sono, propriamente, la nostra “origine”, l’anello di congiunzione tra un mondo contadino in via destinzione - ma che solo mezzo secolo fa era ancora predominante - e una civiltà tecnologica oggi egemone ma anche irrimediabilmente “monca”, visto che con sempre maggiore difficoltà sa attingere a quella base ancestrale che era fatta di relazioni e identità radicate. Quelle corna possenti restano a loro perchè non possiamo ereditarle. E come potremmo, se simili più a insetti che a capre svolazziamo in confortevoli termitai di cemento, ciascuno per sé ma tutti interconnessi? Le nostre “antenne” le hanno di fatto rimpiazzate.
Corna. Diego Perrone ci ha consegnato alcuni ritratti immortali di vecchi sullo sfondo di una inconfondibile provincia italiana. La città è assente, e i vegliardi portano in braccio dei vessilli di un’era rurale tramontata per sempre, eppure pervicacemente radicata tanto nel nostro immaginario, quanto appena fuori dalle nostre congestionate metropoli. Si tratta di imponenti corna di cervidi, di trofei che alludono a una sorta di tempo mitico. Ma che significano? Forse gli arzilli vecchietti stanno per tutti quei nonni un po’ ruspanti rimasti a vivere in provincia, e ai quali noi nipoti di città guardiamo con nostalgica e un po’ esotica curiosità. Essi sono, propriamente, la nostra “origine”, l’anello di congiunzione tra un mondo contadino in via destinzione - ma che solo mezzo secolo fa era ancora predominante - e una civiltà tecnologica oggi egemone ma anche irrimediabilmente “monca”, visto che con sempre maggiore difficoltà sa attingere a quella base ancestrale che era fatta di relazioni e identità radicate. Quelle corna possenti restano a loro perchè non possiamo ereditarle. E come potremmo, se simili più a insetti che a capre svolazziamo in confortevoli termitai di cemento, ciascuno per sé ma tutti interconnessi? Le nostre “antenne” le hanno di fatto rimpiazzate.
Diego Perrone, Marc Quinn, Maurizio Cattelan
Testa. Quel truculento di Marc Quinn si è fatto un calco della testa riempito in seguito con il suo sangue congelato. Quest’ opera letteralmente “agghiacciante” e che “gela il sangue” evoca, di contrasto, delle paure assai volatili quali il disciogliersi, il disintegrarsi e lo scomparire, ma anche l’uscire di senno, il “perdere la testa” e - dietro tutte queste paure - quella di morire. L’artificio compensatorio di fissare per l’eternità sia il naturale scorrere della vita che le fattezze del proprio volto, con una chiara allusione a quel sogno collettivo d’immortalità che è veicolato dagli sforzi con cui realizziamo banche del sangue, del seme, del palrimonio genetico e via dicendo, suggerisce quanto anche nella sfera pubblica regni invincibile lo spettro della morte.
Mani. Su “L.O.V.E.” di Maurizio Cattelan è stato detto e scritto tutto, meno l’essenziale. Quel dito medio che manda a quel paese tanto la Borsa quanto gli investitori è ottenuto non attraverso un gesto volontario della mano, ma per sottrazione delle dita circostanti. Esso è la conseguenza di una mancanza, la nemesi di un torto subito o meglio di un furto compiuto: quello del lavoro ottenuto attraverso l’uso virile delle mani, svilito e defraudato da un’economia che guardando alla finanza assai più che all’impresa, ci ha condotti all’attuale crisi dei mercati internazionali.
Attraverso l’artificio retorico di spezzare le dita all’antica, come fossero colonne senza tempo, è testimoniata una scontitta epocale della collettività, cui da voce l’unico dito rimasto in piedi. Siccome questo sarcastico monumento è un autoritratto sincero e profondo della nostra civiltà capitalistica, che resti a Piazza Affari per sempre, a compensare con il suo “monito anale” quella finanza che si ritiene onnipotente e invincibile.
Mani. Su “L.O.V.E.” di Maurizio Cattelan è stato detto e scritto tutto, meno l’essenziale. Quel dito medio che manda a quel paese tanto la Borsa quanto gli investitori è ottenuto non attraverso un gesto volontario della mano, ma per sottrazione delle dita circostanti. Esso è la conseguenza di una mancanza, la nemesi di un torto subito o meglio di un furto compiuto: quello del lavoro ottenuto attraverso l’uso virile delle mani, svilito e defraudato da un’economia che guardando alla finanza assai più che all’impresa, ci ha condotti all’attuale crisi dei mercati internazionali.
Attraverso l’artificio retorico di spezzare le dita all’antica, come fossero colonne senza tempo, è testimoniata una scontitta epocale della collettività, cui da voce l’unico dito rimasto in piedi. Siccome questo sarcastico monumento è un autoritratto sincero e profondo della nostra civiltà capitalistica, che resti a Piazza Affari per sempre, a compensare con il suo “monito anale” quella finanza che si ritiene onnipotente e invincibile.
Louise Bourgeois, Simon Fujiwara
Piedi. Se c’è un’immagine emblematica ricorrente nelle arti visive, questa è quello dello Zoppo, di cui anche Louise Bourgeois ci ha consegnato una convincente versione. Nessun altro simbolo è altrettanto efficace nell’identificare la natura deficitaria dell’artista e con la sua quella del genere umano. Perché se zoppicare è procedere nell’impedimento così come essere impediti nel procedere, allora chi più chi meno zoppichiamo tutti senza eccezione. La simbolica e artificiale stampella a cui ciascuno di noi sta aggrappato, mentre corregge l’handicap lo sottolinea, un orpello imbarazzante se non frustrante, che involve in “castrante” quanto più non lo si sa accettare e comprendere ma che veicolando Ia nostra più autentica natura, è in dotazione fin dalla nascita.
Pene. Eccoci giunti al principe dei signiticanti del Fallo, ovvero di fronte al finto ritrovamento archeologico del totem fallico realizzato da Simon Fujiwara. La castrazione simbolica qui esibita, suggerita dal desiderio di possesso di un simbolo di virilità che paradossalmente si rivela posticcio, è accolta dallo spettatore con un senso di sfida, leggerezza e agudeza. L’11 settembre e la doppia “castrazione” che ha messo in scena hanno lanciato una sfida ben precisa alle arti visive, che il giovane artista anglo-giapponese sembra avere raccolto con ispirata consapevolezza: se perfino la brutale realtà di quell’evento ci appare una mera finzione (a causa della sua rappresentazione mediatica), perché un artista non dovrebbe convincersi che la simulazione sia più vera del vero, che principalmente di essa si possa esperire e rintracciare ogni valore e dunque di essa si debba procedere all’indagine? Questa sua ulteriore “castroneria” è il prodotto più autentico e consapevole di una Società dello Spettacolo che esplora se stessa in quanto tale, e di un’arte che prendendo atto della sua impotenza può penetrare un reale sempre più invischiato con la finzione.
Pene. Eccoci giunti al principe dei signiticanti del Fallo, ovvero di fronte al finto ritrovamento archeologico del totem fallico realizzato da Simon Fujiwara. La castrazione simbolica qui esibita, suggerita dal desiderio di possesso di un simbolo di virilità che paradossalmente si rivela posticcio, è accolta dallo spettatore con un senso di sfida, leggerezza e agudeza. L’11 settembre e la doppia “castrazione” che ha messo in scena hanno lanciato una sfida ben precisa alle arti visive, che il giovane artista anglo-giapponese sembra avere raccolto con ispirata consapevolezza: se perfino la brutale realtà di quell’evento ci appare una mera finzione (a causa della sua rappresentazione mediatica), perché un artista non dovrebbe convincersi che la simulazione sia più vera del vero, che principalmente di essa si possa esperire e rintracciare ogni valore e dunque di essa si debba procedere all’indagine? Questa sua ulteriore “castroneria” è il prodotto più autentico e consapevole di una Società dello Spettacolo che esplora se stessa in quanto tale, e di un’arte che prendendo atto della sua impotenza può penetrare un reale sempre più invischiato con la finzione.