I edizione in Flash Art # 288 - Novembre 2010



II edizione aggiornata, anno 2017


I valori del paradosso # 2



ZOMBIE



Roberto Ago






NEL PRECEDENTE NUMERO di Flash Art si è cercato di ricondurre Duchamp e il suo ready made a valutazioni storico-critiche affatto differenti rispetto a quelle formulate da Franco Vaccari e Pierluigi Sacco. Possiamo ancora ipotizzare, come suggeriscono i due autori, una fine auspicata dell’Era Duchampiana? Giunti con tale interrogativo alla loro determinazione più provocatoria e di stringente attualità, occorre dubitare di tale auspicio innanzitutto perché, essendo scaturito da quegli equivoci intorno al ready made che abbiamo visto dissolversi, esso non ha più ragion d’essere*.
Sacco è perentorio: l’attuale manierismo duchampiano non costituisce più rottura, ma è a tal punto una modalità cristallizzata, da costituire il passaporto privilegiato per un sistema dell’arte esclusivo e autoreferenziale, che taglia alla radice ogni possibilità di rinnovamento. Se ci pare di poter convenire sul fatto che un manierismo internazionale senz’altro oggi prevale rispetto a proposte originali che pure non mancano, esso non può certo imputarsi all’eredità duchampiana, ma solo a una sovrapproduzione e a un conformismo diffusi che nelle contemporaneità storiche sono sempre stati di casa, mentre l’attuale “sistema dell’arte” ama pensarsi come necessariamente progressista quando in realtà è adagiato da un pezzo sullo status quo. Ma poco dopo Sacco è audacissimo, tanto da affermare che “ci troviamo in piena transizione da un paradigma di impronta (post)duchampiana a uno di impronta (post)beuysiana”. Vale la pena seguirlo: “Stiamo abbandonando le ordinate e rassicuranti collezioni di reliquie disseccate e ben allineate sotto vetro, segno evidente di una concezione esistenziale ritentiva e avara di sentimenti, di una necessità di controllo che neutralizzi ogni reale interferenza, per tornare al rischio di piantare alberi, di doverli (volerli?) curare quotidianamente, di confrontarsi con una dimensione di senso che non si può sterilizzare, classificare, patrimonializzare, e che richiede invece di esporsi in prima persona, di mettere in gioco le proprie ragioni esistenziali, di accettare la scommessa (e la vulnerabilità emotiva) del provare a far vivere le cose, piuttosto che di imparare il mestiere di farle morire con eleganza”.
Sacco solleva un problema estetico e filosofico fondamentale, che va accolto con l’attenzione che merita: può l’opera d’arte essere “viva”? Cominciamo con l’analizzare il suo avvicendamento di paradigmi, perché intendere l’esempio di Beuys come una possibile alternativa capace di far fuori un’opera-reliquia è certamente ancora un equivoco. Se infatti c’è stato uno che ha fatto della collezione di reliquie disseccate la sua cifra fondamentale, quello è proprio Beuys, e assai più di Duchamp. L’exemplum del piantare alberi non può determinare un vitalistico paradigma “beuysiano”, anche perché nulla appare più spettrale di quelle foto in bianco e nero che fossilizzano l’exploit ecologista dell’instancabile sciamano. Non può essere lui la soluzione, né qualsivoglia altro artista ancora in vita, il problema della registrazione mortifera è ineludibile per chiunque. Qualcuno di “diverso”, forse, un Tino Sehgal per esempio? Non male, se non fosse che le sue sono comunque delle reliquie viventi “custodite” nel museo. Forse lo Zeitgeist sta cambiando e una nuova arte si profila all’orizzonte, magari svincolata da quel santuario cimiteriale che è il museo e innestata direttamente nella vita del tessuto sociale, come nel caso dell’ospedale africano finanziato con il premio in denaro vinto da Massimo Grimaldi? Se così fosse, essa potrebbe anche sfuggire al bacio della Comare Secca ma, guarda caso, solo a patto di non essere “immortalata” in quanto arte. Si prospetta l’impossibilità di una soluzione. Il fatto è che siamo in presenza di un’aporia fondamentale. Vediamo perché.
È noto, o dovrebbe esserlo, come sia fondamento costitutivo dell’arte il suo essere in stretta comunione con la morte, anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che l’arte è l’arte di non morire morendo. Se è vero questo enunciato paradossale, ed è vero, è falso affermare il contrario di senso comune, ovvero che sia possibile non morire vivendo, perché l’opzione purtroppo non è possibile. L’arte è eternità e nessuna vita è eterna e, se eternizzata, non è vissuta e dunque non è vita. Lo statuto ontologico dell’opera d’arte è uno statuto simbolico paradossale in virtù del quale solo perché è “morta”, essa continuamente può risorgere esorcizzando la sua requie assieme a quella del suo autore. Il secolare universo dell’arte contemporanea conserva, nelle sue profondità strutturali, lo stesso fondamento costitutivo della religione, ma mascherato. È nel paradigma della resurrezione che risiede, in particolare, la strettissima contiguità tra arte e religione, che infatti nel corso della storia hanno quasi sempre coinciso. Pensiamo solo all’arte funeraria delle antiche civiltà, o all’icona bizantina dove l’immortalità di Cristo e quella della sua immagine dipinta sono davvero la stessa cosa. L’opera d’arte, come il “Redentore”, non può che essere reliquia fin dalla nascita, un feticcio che adoriamo per tante ragioni diverse ma soprattutto perché saprà sconfiggere il nulla, perché può consolarci del fatto che il nostro destino non è solo quello di essere-per-morire, come vorrebbe Heidegger, ma anche di morire-per-risorgere. E può risorgere solo ciò che è morto. Senonché, l’impossibilità di fuoriuscire dal rituale scaramantico, che è il loro fondamento e una legittima necessità vitale (soprattutto i devoti), non inficia l’importanza di strumenti critici volti a una fruizione più matura e consapevole, ovvero meno “religiosa”. 
L’arte classica simulava e dissimulava a un tempo la presenza della morte attraverso una mimesi vitalistica che fu avvertita come sempre più ingenua dalla modernità, finché la morte non fu assunta direttamente nel corpo dell’opera in quanto parte integrante della vita. A eccezione delle fughe nell’astrazione geometrica che però, negandola, la chiamano in causa, a partire dalle avanguardie storiche è tutto un tentativo di annessione della morte e, di conseguenza, dei relativi scongiuri. Mutilazioni, dolore e violenze incontrano rappresentazioni d’ogni tipo, oppure sono agite direttamente attraverso attacchi perpetrati all’opera o al contesto espositivo, contestualmente alla salvaguardia delle “esequie” tanto per mezzo della cosmesi artistica, quanto in virtù di allestimenti certosini.
Delle modalità rituali a tutti gli effetti, che consentono di vivacizzare il cadavere dell’opera esorcizzando al contempo le paure legate alla sua distruzione e perdita. Convocati sia Eros che Thanatos, gli attacchi distruttivi sono inflitti assieme alle cure, secondo un’oscillazione ambivalente di tipo magico-compensatorio. Elaborando emozioni negative che esso stesso provoca e scongiurando gli incubi privati attraverso la partecipazione collettiva, il “campo transizionale” dell’opera d’arte consente l’elaborazione apotropaica e nostalgica del lutto in uno spettatore che, è bene ricordarlo, è animale prima di tutto mortale, riscattandolo dall’horror vacui. Viceversa, l’attuale tendenza di molti artisti a misurarsi in prima persona con tecniche rituali mutuate dal teatro e dalle cerimonie (sotto l’appellativo aggiornato di “performance”), a discapito di mezzi inerti più votati all’eternità, rappresenta la volontà di rivitalizzare l’opera attraverso un copione che sembra più vivo delle opere tradizionali ma che in realtà, essendo come quelle inerte e dunque eterno, è anch’esso continuamente morente: la sua vita è destinata a durare unicamente il tempo delle sue recite.
Qualunque sia il mezzo adottato, l’efficacia del rituale permane solo il tempo necessario alla sua assuefazione, dopodiché altre rappresentazioni andranno messe a punto per riaccendere la scintilla in un pubblico di devoti navigato e progressivamente assuefatto. Un’arte che da antica e poi moderna si è fatta “contemporanea”, in quanto tale invecchia subito, incontrando quella cattedrale laica che è il museo, ha l’ammirazione incondizionata di uno spettatore sempre molto devoto, ma oggi assai esigente, la cui crisi d’astinenza dalla novità/vitalità è presto inevitabile**. Quelle opere che tanto ammira hanno conquistato l’eternità al caro prezzo di un’attualità perduta, e l’attualità, per lui, equivale alla vitalità. Essendo il pubblico vivente dell’arte, attraverso un processo di identificazione proiettiva, l’(in)diretto interessato a questa continua messa in scena della morte, è lui a patire dell’opera e a decidere quando sia necessario rinverdire gli ingredienti del rituale. E oggi, a differenza di ieri, il quando è “sempre”. Tutta l’arte contemporanea si rinnova, come il vampiro, a partire dall’incessante ricerca di una vitalità che svanisce non appena addentata, la sua ansia di novità è prima di tutto ansia di nuova vita***.
Ecco dove origina il continuo, cieco fraintendimento circa una Novità che, veicolata dalla figura simbolica del Giovane, viene scambiata per la freschezza dei tanti artisti in erba conformi a un gusto corrente già codificato. Cannibalizzati nonostante siano tutt’altro che originali, sono gli agnelli sacrificali di un rito propiziatorio che non conosce tregua, essendo oltretutto oggi l’arte, come la musica, il cinema e la letteratura, un’industria culturale che deve prima di tutto fatturare. Speculando sul cupio dissolvi di un pubblico sempre bramoso di nuove emozioni, essa “intrattiene” al di là del valore dei suoi prodotti, mediamente assai scadenti e ripetitivi. Basti pensare a quanto collezionismo (a sua volta efficace elisir di lunga vita) sa alimentare e, spesso, illudere. Tale insaziabile appetito collettivo per una vitalità contrapposta alla morte, in quanto dialettica di assoluti, non può essere saziato. Esso condiziona nel bene e nel male molti aspetti della vita moderna inclusa l’arte, secondo un modello dinamico proprio dei rituali religiosi, dei comportamenti maniacali, delle dipendenze.
Chiarita l’innocenza di quel condannato a morte che è il ready made e l’opera d’arte in genere****, c’è un ultimo indagato a cui poter rivolgere, con Vaccari e Sacco, l’arringa accusatoria: l’uso “anal-ritentivo” che della pratica duchampiana stanno facendo i tanti artisti sparsi in giro per il mondo. Andrebbe cioè distinto il reato dal corpo del reato, perché oggi il ready made è a tutti gli effetti una “tecnica” codificata, e dunque di per sé è innocente. Sarà allora la qualità della singola postproduzione a dover essere soppesata ed eventualmente contestata.
Se non fosse che una quota di “ritenzione” è presente nelle opere d’arte di tutti i tempi. Essa è rintracciabile nella distaccata lontananza (Apollo è il dio delle arti visive) della rappresentazione dal soggetto rappresentato, sovente macabro. Distacco che si traduce in quella volontà di controllo onnipotente sulla morte da parte dell’artista/pubblico che abbiamo evidenziato. Allora non il necessario corollario “anale” dell’opera d’arte sarà il nemico da scongiurare, bensì il suo esorbitare da necessità strutturale al rango di soggetto rappresentato? In linea teorica. Perché il problema, almeno nelle arti visive, è che questa è una distinzione sottile, quasi mai praticabile e suscettibile di differenti valutazioni soggettive parimenti legittime. Certo in casi estremi di incasellamento paranoide, come troppo spesso capita di osservare nei musei e gallerie di mezzo mondo, è facile essere d’accordo con l’accusa. Tuttavia, anche qui, vi è una possibile attenuante: è colpa dell’analità di artisti mai pienamente fuoriusciti da un giardino d’infanzia di cui amano classificare ogni organismo con lo stesso furore tassonomico di un naturalista, o del mondo contemporaneo che in questo modo vanno rappresentando? Non è proprio il “database”, come sostiene correttamente Vaccari, la forma simbolica del nostro tempo? E che dire di quei casi in cui una vertigine della lista è assolutamente sottoscrivibile, pensiamo alle serialità warholiane, al mondo sotto vetro di Damien Hirst o agli oggetti allo specchio di Urs Fischer? Ma in fondo, non è un elenco ogni successione di opere dello stesso artista che presenti un suo idioletto riconoscibile (e anzi guai se non lo presenta)?
Arte e Religione, riscattando la vita attraverso le sue rappresentazioni mortifere, sono necessariamente “anali” (Feci=Oro, e nessuno come Manzoni l’aveva capito). E  “maniacali”, perché in ogni forma di rituale si cela un fondo ossessivo-compulsivo. È la condicio sine qua non della loro efficacia e potenza, nonché il rovescio simbolico della loro grandeur.

* A distanza di sette anni dalla prima edizione di questo articolo, apparso in forma ancora acerba sulle pagine di Flash Art, resto convinto della fallacia delle argomentazioni di Vaccari e Sacco circa lo statuto ontologico del ready made duchampiano, rispetto alle quali rimando alla prima parte. Ma devo riconoscermi in accordo, oggi, con Sacco circa il peso che indubbiamente l’utilizzo del ready made riveste nell’attuale manierismo imperante a livello internazionale, anche se non intravedo certo nell’opzione “Beuys” un possibile rimedio. Rimando al mio Le alterne vicende del ready made, consultabile su questo stesso portale, per alcuni riflessioni in merito all’utilizzo contemporaneo del ready made.
** Non sono più convinto nemmeno di questo. Le tribù dell’arte appaiono sì assuefatte al manierismo internazionale che si è imposto a partire dalla data simbolica del 2001, ma anche incapaci di crisi d’astinenza dalla novità. Ci si accontenta di professionalità e maniera, in attesa di un’innovazione dei codici visivi nella quale in fondo, occorre ammetterlo, non crede più nessuno. 
*** Di nuovo, quest’ansia che allora credevo di intravedere mi pare, ad oggi, tutt’altro che diffusa. Essa ha lasciato spazio a noia e rassegnazione per il deja-vù negli osservatori più acuti e smaliziati, e a entusiasmo acritico e genuina adesione a un’arte codificata in quelli di bocca buona, che poi sono la maggioranza.
**** Innocenza “ontologica”, perché dal punto di vista performativo c’è un’enorme differenza tra i diversi modi di espressione artistica. In una prospettiva sia antropologia che estetica, il ready made è oggi, al pari di pittura e scultura, assai meno rilevante di cinema, televisione e web, che pure non sfuggono all’horror vacui.


In copertina: Roberto Ago, Senza Titolo, 2010