Flash Art # 289 - Dicembre/Gennaio 2011
Opinioni
Italia sì, Italia no
MILANO
By Roberto Ago
PDF version
Opinioni
Italia sì, Italia no
MILANO
By Roberto Ago
Fin dal titolo, “La scultura italiana del XXI secolo”, la mostra
collettiva sulle ultime tendenze
della ricerca plastica in Italia,
ospitata presso gli spazi della
Fondazione Pomodoro, tradisce
un intento curatoriale discutibile ma soprattutto disatteso nei
fatti. Un’occasione mancata, e
tuttavia una mostra che ci sentiamo di segnalare, soprattutto
ai giovani curatori, perché esemplare sul come e perché non fare
operazioni del genere. Se il voler
identificare le esperienze plastiche di appena un decennio con
quelle di un secolo suscita qualche ilarità, del tutto inadeguata
si rivela, visto lo spirito di avanscoperta del tema, questa ennesima “esposizione universale”
dell’arte del Belpaese, mentre
pleonastica è l’intuizione, da
parte del curatore Marco Meneguzzo, di una scultura italiana
ibridata e “un-monumental”,
che ha abbandonato materie
tradizionali come il marmo e il
bronzo per abbracciare materiali
quotidiani già informati e deperibili, da scomporre e ricomporre con piglio assemblativo. È da
un pezzo che questo assunto fa
da sfondo operativo a pressoché
tutta l’arte occidentale, ovvio che
anche la “provincia” italiana dovesse viaggiare in tal senso, magari con quel ritardo che spesso

Anna Galtarossa, Divinità domestiche, 2010. Materiali vari, 92 x 58 x 40 cm. Courtesy Stu- dio La Città, Verona.
la contraddistingue. Occorreva semmai individuare le migliori declinazioni particolari di una tendenza che è generale e che non era certo necessario ribadire, oltretutto come se si trattasse di un tratto distintivo nostro.
Senonché, curiosamente e contro ogni aspettativa tanto del curatore quanto dello spettatore, un certo sapore anni Novanta sembra essere il vero leitmotiv ricorrente in gran parte dei lavori esposti, ancora imperniati sul primato di una componente spettacolare ingenua, esibita e spesso kitsch, condita di spirito ludico e addirittura comico (si prenda ad esempio di ciò la generosa scultura in ceramica e argento [Madonna scheletrita, 2008] di Bertozzi e Casoni, qui nei panni dei fratelli Chapman). Per nulla rappresentativa della nostra ricerca plastica migliore, questa mostra denuncia come una parte cospicua della scena italiana sia lontana anni luce rispetto a quella internazionale e all’approccio ben più sofisticato che la contraddistingue. Circa ottanta opere per altrettanti artisti (un’enormità per uno spazio pur generoso) potrebbero lasciare intendere un panorama nostrano ricco e vitale, ma per circa il 60% dei casi si tratta di presenze assolutamente modeste che disegnano un quadro fuorviante. Oltretutto, la quota rilevante di artisti più anziani anche bravi sarebbe meglio ricon- ducibile allo spirito del decennio immediatamente precedente, ovvero non è rappresentativa delle ricerche condotte negli ultimi anni. L’assenza ingiustificata, invece, di molti artisti emersi proprio nel decennio preso in esame, e che con più diritto dei tanti “maestri” invitati avrebbe- ro potuto identificarlo, appare semplicemente paradossale. A tal proposito, mi permetto di suggerire come solo nel caso in cui una mostra abbia in un tema evocativo e trasversale (e non banalmente ricognitivo) la sua ragion d’essere, è lecito invitare con disinvoltura, a fianco di artisti più giovani, artisti vecchi e perfino defunti, e anzi proprio queste sarebbero le collettive da privilegiare, certamente più inte- ressanti (ma anche più difficili) di quelle che hanno l’ambizione inutile o superflua di fare il punto della situazione. Altrimenti, una ricognizione quantomeno seria sulla scultura italiana più attuale avrebbe dovuto tenere conto di una omogeneità generazionale decisamente maggiore. In ogni caso, l’obbligo di una previa distinzione — congetturale certo, ma tutt’altro che arbitraria — tra un’arte di “serie A”, una di “serie B” e perfino una di “serie C”, qui drammaticamente compresenti.
Mi sia dunque consentito di citare solo da quel 40% relativo alla prima serie. Ad accogliere lo spettatore all’ingresso, il cavallo- papà con la testa conficcata nel muro di Maurizio Cattelan (Senza Titolo, 2007), che qui sembra quasi voler fuggire per non assi- stere allo spettacolo sottostante inscenato dai figli più piccoli. Caso felice di ri-contestualizzazione involontaria di un’opera e di un artista che altrimenti, in questo contesto, appaiono del tutto fuori luogo. Poco più in là, un paio di gambe femminili in marmo (Gambe nere, VB.M.03.2010) di “mamma” Vanessa Beecroft fanno rimpiangere perfino le sue ultime, patinate performance. Improv- visarsi scultrice a metà carriera può comportare dei rischi, anche perché una pletora di gran donne (da Louise Bourgeois a Kiki Smith a Sarah Lucas) affrontò anni addietro lo stesso identico soggetto con ben altri esiti plastici e concettuali. Si prosegue con un vecchio lavoro fotografico di Giuseppe Gabellone (Senza Ti- tolo, 1997), sempre attuale anche a distanza di tanto tempo. L’artista è tornato in tempi recenti sul tema della “scultura fotografata” qui riproposto, sicuramente la sua invenzione più originale e sulla quale varrebbe forse la pena di insistere maggiormente. Di qualità anche gli interventi di Gianni Caravaggio (Dispositivo per creare spazio, 2007) e France-
Patrick Tuttofuoco, Isabelle, 2009. Acciaio
inox, legno, vestiti, resina, pittura spray, 238
x 120 x 120 cm. Courtesy Studio Guenzani, Milano. Foto: Roberto Marossi.
sco Gennari (Contrazione della Metafisica #2, 2007), due artisti sicuri che meriterebbero più sponsorizzazioni, mentre riuscita, ennesima prova formalista quella di Luca Trevisani, qui con un delicato mobìle di canne da pesca e lustrini (Every Basin is a Mixing Bowl, 2008), a dimostrazione che la lezione tardomodernista può ancora garantire degli ottimi risultati, se non altro sul piano plastico e compositivo. Bei lavori di rappresentanza per Paola Pivi (Senza Titolo (perle), 2008), Lara Favaretto (L’uno per cento, 2009) e Massimo Bartolini (Revolutionary Monk, 2005), paghi — come troppi altri artisti, del resto — nel presentare opere già molto conosciute, mentre interessante è l’intervento di Ales- sandro Piangiamore (Senza Titolo (sacrificio), 2010), il cui video in piena luce va però indovinato. Decisamente al di sotto delle loro possibilità, invece, i lavori di Patrick Tuttofuoco (Isabelle, 2009), Diego Perrone (Pendio piovoso frusta la lingua, 2010) e Nico Vascellari (Jesus, 2010).

Anna Galtarossa, Divinità domestiche, 2010. Materiali vari, 92 x 58 x 40 cm. Courtesy Stu- dio La Città, Verona.
la contraddistingue. Occorreva semmai individuare le migliori declinazioni particolari di una tendenza che è generale e che non era certo necessario ribadire, oltretutto come se si trattasse di un tratto distintivo nostro.
Senonché, curiosamente e contro ogni aspettativa tanto del curatore quanto dello spettatore, un certo sapore anni Novanta sembra essere il vero leitmotiv ricorrente in gran parte dei lavori esposti, ancora imperniati sul primato di una componente spettacolare ingenua, esibita e spesso kitsch, condita di spirito ludico e addirittura comico (si prenda ad esempio di ciò la generosa scultura in ceramica e argento [Madonna scheletrita, 2008] di Bertozzi e Casoni, qui nei panni dei fratelli Chapman). Per nulla rappresentativa della nostra ricerca plastica migliore, questa mostra denuncia come una parte cospicua della scena italiana sia lontana anni luce rispetto a quella internazionale e all’approccio ben più sofisticato che la contraddistingue. Circa ottanta opere per altrettanti artisti (un’enormità per uno spazio pur generoso) potrebbero lasciare intendere un panorama nostrano ricco e vitale, ma per circa il 60% dei casi si tratta di presenze assolutamente modeste che disegnano un quadro fuorviante. Oltretutto, la quota rilevante di artisti più anziani anche bravi sarebbe meglio ricon- ducibile allo spirito del decennio immediatamente precedente, ovvero non è rappresentativa delle ricerche condotte negli ultimi anni. L’assenza ingiustificata, invece, di molti artisti emersi proprio nel decennio preso in esame, e che con più diritto dei tanti “maestri” invitati avrebbe- ro potuto identificarlo, appare semplicemente paradossale. A tal proposito, mi permetto di suggerire come solo nel caso in cui una mostra abbia in un tema evocativo e trasversale (e non banalmente ricognitivo) la sua ragion d’essere, è lecito invitare con disinvoltura, a fianco di artisti più giovani, artisti vecchi e perfino defunti, e anzi proprio queste sarebbero le collettive da privilegiare, certamente più inte- ressanti (ma anche più difficili) di quelle che hanno l’ambizione inutile o superflua di fare il punto della situazione. Altrimenti, una ricognizione quantomeno seria sulla scultura italiana più attuale avrebbe dovuto tenere conto di una omogeneità generazionale decisamente maggiore. In ogni caso, l’obbligo di una previa distinzione — congetturale certo, ma tutt’altro che arbitraria — tra un’arte di “serie A”, una di “serie B” e perfino una di “serie C”, qui drammaticamente compresenti.
Mi sia dunque consentito di citare solo da quel 40% relativo alla prima serie. Ad accogliere lo spettatore all’ingresso, il cavallo- papà con la testa conficcata nel muro di Maurizio Cattelan (Senza Titolo, 2007), che qui sembra quasi voler fuggire per non assi- stere allo spettacolo sottostante inscenato dai figli più piccoli. Caso felice di ri-contestualizzazione involontaria di un’opera e di un artista che altrimenti, in questo contesto, appaiono del tutto fuori luogo. Poco più in là, un paio di gambe femminili in marmo (Gambe nere, VB.M.03.2010) di “mamma” Vanessa Beecroft fanno rimpiangere perfino le sue ultime, patinate performance. Improv- visarsi scultrice a metà carriera può comportare dei rischi, anche perché una pletora di gran donne (da Louise Bourgeois a Kiki Smith a Sarah Lucas) affrontò anni addietro lo stesso identico soggetto con ben altri esiti plastici e concettuali. Si prosegue con un vecchio lavoro fotografico di Giuseppe Gabellone (Senza Ti- tolo, 1997), sempre attuale anche a distanza di tanto tempo. L’artista è tornato in tempi recenti sul tema della “scultura fotografata” qui riproposto, sicuramente la sua invenzione più originale e sulla quale varrebbe forse la pena di insistere maggiormente. Di qualità anche gli interventi di Gianni Caravaggio (Dispositivo per creare spazio, 2007) e France-

sco Gennari (Contrazione della Metafisica #2, 2007), due artisti sicuri che meriterebbero più sponsorizzazioni, mentre riuscita, ennesima prova formalista quella di Luca Trevisani, qui con un delicato mobìle di canne da pesca e lustrini (Every Basin is a Mixing Bowl, 2008), a dimostrazione che la lezione tardomodernista può ancora garantire degli ottimi risultati, se non altro sul piano plastico e compositivo. Bei lavori di rappresentanza per Paola Pivi (Senza Titolo (perle), 2008), Lara Favaretto (L’uno per cento, 2009) e Massimo Bartolini (Revolutionary Monk, 2005), paghi — come troppi altri artisti, del resto — nel presentare opere già molto conosciute, mentre interessante è l’intervento di Ales- sandro Piangiamore (Senza Titolo (sacrificio), 2010), il cui video in piena luce va però indovinato. Decisamente al di sotto delle loro possibilità, invece, i lavori di Patrick Tuttofuoco (Isabelle, 2009), Diego Perrone (Pendio piovoso frusta la lingua, 2010) e Nico Vascellari (Jesus, 2010).