Artribune.com - Giugno 2012




Le alterne vicende del ready made



Roberto Ago 


Ne abbiamo parlato, della sospetta somiglianza fra le ruote di Nick Relph e quelle di Giuseppe Lana. Plagio? Zeitgeist? In realtà il punto è un altro: l’uso e abuso del ready made. È l’opinione di Roberto Ago, qui in veste di acuto critico d’arte.




Nick Relph - Raining Room - 2012 - Herald St Gallery, Londra - photo Vincenzo Todaro

Appresa la notizia della sovrapponibilità dell’opera di Nick Relph con quella, analoga e anteriore, di Giuseppe Lana, qualche considerazione in merito all’utilizzo del ready made duchampiano è d’obbligo. Categoria sulla quale posso vantare una certa competenza, avendone in passato abusato ed essendo uno dei miei oggetti di riflessione preferiti da quando, oltre a quella di artista, esercito l’attività di critico, sia pure solo “part-time”. Non indulgerò dunque ad alcuna vis polemica condita di rancoroso patriottismo, ma unicamente a un intento analitico squisitamente “euristico”.
C’è un primo dato sostanziale che mi accomuna ai due artisti: esiste un mio lavoro del 2007 (dunque anteriore a quello di entrambi) assai prossimo, sul piano del contenuto, alle loro “otto ruote”, ma completamente diverso dal punto di vista formale. Si tratta di uno dei miei consueti panel intitolato Ferrari (2007), già esposto ad Artissima nel 2007, alla Galleria Civica di Monfalcone nel 2008 e, in quanto poster, nella bella mostra di soli progetti realizzata a Roma nel 2009 da Cecilia Casorati e Sabrina Vedovotto (con tanto di catalogo).



Giuseppe Lana - Di sbieco (dicotomia del terzo escluso) - 2011


Rappresenta, in un certo senso, l’idea, lo statement alla base della realizzazione materiale dell’opera. Occorre poi ricordare come già in passato un mio lavoro oggettuale apparve replicato, a un anno di distanza, da Hans Schabus, un artista ben più noto di me. A tal proposito si può vedere una divertente pagina comparativa sul web. E queste sono solo le mie due “visioni anticipatrici” di dominio pubblico, perché ne avrei ancora qualcuna nota a pochissimi e qualcun’altra custodita unicamente nella mia mente. Comincio seriamente a credere di possedere una qualche capacità divinatoria, ma se penso ad alcuni miei funesti statement esposti di recente, mi auguro davvero di no!
Questi fastidiosi déjà-vu, per un artista italiano doppiamente frustranti, mi convinsero, circa quattro anni fa, a ridurre allo stretto necessario l’utilizzo di oggetti in luogo di strumenti linguistici più personali. Tra le mie tre o quattro nuove modalità operative, quelli che solitamente definisco “panel” altro non sono che una serie ininterrotta di statement sotto forma di editti. Optai per questa sorta di “ritorno alla pittura”, certo concettuale, astratta e meccanica, anche per aggirare il peso calorico di un ready made e più in generale di un “visivo” divenuto molesto, concedendomi saltuariamente un breve digiuno. Capitò così che in Ferrari immaginavo un’opera pressoché identica a quella di Relph, solo che nel mio caso si trattava delle ruote di una Testarossa (il non plus ultra dell’auto, per intenderci). Inutile sottolineare la sorpresa nel vedere la “mia” idea materializzarsi improvvisamente davanti ai miei occhi, rispetto alla quale tuttavia, vista anche l’inflazione del soggetto, continuo a preferire i miei veli iconoclasti.
Ribadisco che non sono qui a perorare la causa di artisti nostrani tartassati da incuria e anonimato, cui farebbero da contraltare prodigi internazionali per giunta rei di averci saccheggiato l’immaginazione. Voglio invece sottolineare come sovrapposizioni del genere tirino in causa proprio il ready made e una “matrice” (Matrix?) creativa sempre più impersonale e globale. Ormai solo il calcolo delle probabilità non fa convogliare troppo spesso più artisti sul medesimo oggetto, ma è questione di pochi anni.
Nel frattempo, basterebbe guardare alle sole edizioni correnti di Manifesta e Documenta per rendersi conto di come, il più delle volte, sia unicamente il nome stampato sull’etichetta, e non certo il ready made corrispondente, a poter identificare l’artista. Quella duchampiana è una pratica certamente ancora efficace, e nondimeno inflazionata. Il suo utilizzo dovrebbe farsi più parsimonioso, ponderato e consapevole, ma soprattutto organico all’idioletto peculiare dell’artista che lo adotta. Perché i Relph in agguato sono migliaia e tutti perfettamente in grado, e di diritto, di usurpare a chiunque la paternità di un’opera.



Roberto Ago - Ferrari - 2007


Proviamo a rovesciare l’episodio: se le quattro ruote fossero comparse in Relph e, poco dopo, in Kris Martin (maestro assoluto del ready made), chi avrebbe avuto la meglio? Non c’è dubbio, in quel caso sarebbe stata più bella e importante, diciamo pure un suo capolavoro, la versione di Martin, perché meglio inscritta nel suo inconfondibile modus operandi. Di più, il suo tipico cupio dissolvi avrebbe stemperato quel pizzico di pop che traspare nella versione di Relph, consegnando l’opera a un orizzonte più esistenziale.
Venendo alle versioni di Lana e Relph, quella corretta, migliore e definitiva spetta senza dubbio al secondo, e non già a Lana, che pure c’è arrivato per primo. Questo non tanto perché il pupillo di Gavin Brown è famoso mentre il nostro no, ma perché il gioco di evocare in assenza una “supercar” è ben più sottile di quello che ci consegna un catorcio usato, e al limite proprio qui si vede la differenza tra un incompreso genio italiano e un riconosciuto professionista internazionale.
Come che sia, quest’opera è “apolide” nell’ideazione prima ancora che nella realizzazione. Indiscutibilmente efficace, è del tutto impersonale. È noto che, se un’occorrenza è un caso, due occorrenze dello stesso tipo costituiscono un indizio, mentre tre suggeriscono di essere in presenza di un vero proprio sistema “significante”. In questo senso, la triplice convergenza di Ago, Lana e Relph su un medesimo tema testimonia in modo eloquente un’omologazione globale divenuta cronica. Forse quest’opera non andava realizzata, ma solo immaginata? Ovvio che no, la versione di Relph è indubbiamente un bel lavoro, meritevole di esistere. Il problema è che rischia di essere superiore al suo autore, tutto sommato un po’ anonimo e manierato.



Marcel Duchamp - L.H.O.O.Q. Raseé - 1965 - collezione privata - photo Antonio Maniscalco


Prima ancora di sottolineare l’abisso tra una drammatica situazione italiana e un “altrove” spesso idealizzato ancorché certamente migliore, questo episodio evidenzia quanto lo stile internazionale sia divenuto una consuetudine inconsapevole, se non una vera e propria “prassi” inconscia. Sul tavolo globale delle possibilità operative, il ready made costituisce oggi lo standard più impersonale. Sempre dannatamente attuale e capace di sorprendere, modus espressivo privilegiato perché tra i più semplici da utilizzare, chiave d’accesso più universalmente diffusa, esso è anche, e per tutti questi motivi, il più insidioso dei passepartout.
Oltretutto l’oggetto, in sé, ha uno “stile” massimamente anonimo e collettivo: per sopperire al suo carattere indifferenziato sarebbe necessaria una Weltanschauung d’altri tempi. Occorrerebbe, in poche parole, un carisma individuale tale da imprimergli una cifra inconfondibile. Pochissimi ce l’hanno. Nonostante il suo esercizio di stile duchampiano acclamato all’unanimità, la giovane promessa di turno spesso non aggiunge nulla alla Storia dell’Arte. Molte delle attuali “blue chip” internazionali non diventeranno mai veri maestri, oppure, osannati oggi, spariranno del tutto un domani, proprio in virtù del loro utilizzo impersonale delle cose di tutti i giorni, senza cioè che un valore aggiunto sia intervenuto a differenziare il loro ready made da quello dei loro numerosi colleghi.



Marcel Duchamp controlla una sua opera prima di una mostra


Un po’ come le sigarette, un’opera non esiste mai da sola, ma è preceduta e seguita da molte altre opere che, mentre la relativizzano, la inquadrano in un orizzonte di senso più ampio. L’oscillazione stilistica all’interno di una stessa ricerca può andare dal più sfrenato eclettismo alla più inflessibile delle ortodossie. In genere, la buona arte si tiene su una posizione intermedia, semmai tendendo un poco verso il polo della monotonia. Perché? Perché la somma complessiva delle opere deve necessariamente restituire un opus organico e coerente: l’universo peculiare dell’artista. Il vero valore è dato dall’identità e riconoscibilità dell’opera complessiva, di cui i singoli episodi non sono che un estratto. Su questa distinzione fondamentale la critica, internazionale o nostrana che sia fa poca differenza, non di rado inciampa. Ebbene, la gran parte dei suoi innumerevoli “equivoci” spesso è veicolata proprio da un ennesimo, impersonale, fantastico, acclamatissimo ready made, sovente elargito dal “giovane/vecchio” di turno, vessillo della dea Novità. La sua perla nuova di zecca acceca a tal punto, che non si nota l’inconsistenza della collana. Ma una volta spente le luci, non resta nulla.